«Sento che c’è qualcosa di fatale in questo continuare a spendersi, come proiettato in un’orbita da cui ci si riesce a staccare solo per qualche intermezzo».
Così scriveva a mio padre nel 1999, quasi quindici anni fa, Giorgio Napolitano, appena eletto al Parlamento Europeo, in una lettera molto affettuosa, ricordando una piacevole serata trascorsa assieme in un clima di confidenza.
È impossibile pensare alle iniziative della Fondazione Pellicani con il Presidente della Repubblica a Venezia e a Mestre, senza ricordare l’amicizia e il legame politico che ha unito Gianni Pellicani a Giorgio Napolitano. Un rapporto nato negli anni cinquanta, che si è consolidato nel tempo, attraversando oltre mezzo secolo e diverse stagioni politiche, tra le più travagliate della storia repubblicana.
Questa frase di Napolitano sintetizza l’atteggiamento di una generazione di politici verso l’impegno civile e sociale, dove lo “spendersi” per il Bene Comune diventa un’esigenza istintiva, prima ancora che una scelta di vita.
Gianni Pellicani e Giorgio Napolitano hanno condiviso valori, ideali e progetti politici, fino a costruire «un’amicizia allo stato puro», come scrive lo stesso Napolitano nella lettera sopra citata, «un rapporto in cui con il passare degli anni ci si ritrova tra pochi, e che si fa sempre più prezioso».
Mio padre possedeva una memoria formidabile ma, a parte i libri, conservava gelosamente pochissime cose. In un cassetto tra gli oggetti più cari, teneva la corrispondenza con Napolitano, fatta di lettere e di un buon numero di biglietti, scambiati durante le sedute della Camera e le riunioni di partito, tra i tavoli a ferro di cavallo della direzione di Botteghe Oscure. I bigliettini, secondo l’uso dell’epoca, quando i cellulari non erano ancora all’orizzonte, costituivano il mezzo per confrontarsi sull’andamento delle riunioni o per scambiarsi commenti di varia natura.
Ciò che mi preme qui evidenziare è, in particolare, la consistenza di questo rapporto, che non è stato esclusivamente politico. Un’amicizia maturata negli anni, cresciuta via via assumendo un carattere sempre più intimo e confidenziale man mano che diminuiva l’impegno politico. Un legame che, in particolare nell’ultimo periodo, ormai scevro da condizionamenti esterni, poneva al centro esclusivamente le persone, Gianni e Giorgio. Sullo sfondo, sempre il tarlo della politica e dell’impegno.
Per ultimo periodo, intendo l’ultimo tratto della vita di mio padre, mancato il 21 aprile del 2006.
Per quegli strani incroci del destino, solo una ventina di giorni dopo Napolitano sarebbe diventato Presidente della Repubblica, ricominciando tutto daccapo.
Fino a poche settimane prima continuavano a sentirsi, quasi quotidianamente. Lo ha ricordato lo stesso Napolitano nell’orazione funebre pronunciata il 24 aprile 2006. Un discorso in cui traspare chiaro il senso di un’amicizia, fin dalle parole iniziali: “Vorrei dare innanzitutto testimonianza di un’amicizia e di un affetto, del rapporto ideale e umano profondo che ha legato me e Gianni per lunghi anni senza ombre. E voglio ricordare il calore e la generosità di Gianni che ho potuto sperimentare nei tempi del nostro impegno e lavoro comune nel partito e in Parlamento. Calore e generosità che avevano conosciuto un’ancora maggiore intensità da quando Gianni era rimasto fuori da ogni atività e noi eravamo, dunque, non più coinvolti in un “fare insieme” come prima, ma ci scambiavamo semplicemente pensieri e stati d’animo: eravamo semplicemente fraterni amici […]”.
Continuavano a parlare, a confrontarsi su fatti personali e a ragionare a volte, penso di poter dire, anche con una certa dose di delusione per la piega che avevano preso le vicende politiche, continuando a coltivare quel sentimento di «amicizia allo stato puro», cercando forse di riempire anche un vuoto lasciato dal progressivo venir meno del lavoro politico. «Da tempo – scriveva ad esempio Napolitano in una lettera quattro anni prima – «non fa che crescere in me il valore dell’amicizia, la più disinteressata, come quella che c’è tra noi».
L’ultima volta che si sono incontrati risale al gennaio del 2006, per la presentazione dell’autobiografia dello stesso Napolitano. Quel giorno tra i relatori c’era anche Massimo Cacciari. Fu quello il momento di riavvicinamento tra mio padre e Massimo dopo il “black-out” delle elezioni amministrative del 2005, che aveva prodotto una profonda divisione politica tra loro, tuttavia mai intaccando l’amicizia e la stima reciproche. Del resto in un breve saggio, scritto poco dopo lo strappo del 2005, mio padre non esitò a definire Cacciari “una delle massime espressioni del riformismo italiano”. Un legame, quello tra Cacciari e mio padre, sul quale ha voluto soffermarsi anche Napolitano, salutando gli amici della Fondazione nel settembre 2011, l’ultima volta che è venuto a Mestre, rilevando come il rapporto tra Massimo e Gianni sia sempre stato improntato alla massima libertà: «È noto come proprio nella fase finale della vita di Gianni, ci sia stato un dissenso su una vicenda non trascurabile. Ma non li ho mai visti così affettuosamente vicini come in quell’occasione. Questo dà il segno di che cosa fossero ambedue. E di cosa dovrebbe essere la politica: essere amici, solidali e nello stesso tempo liberi. Se anche a questo riuscirà a educare la Fondazione Pellicani, farà onore a lui e farà onore alla politica».
Quel libro, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, rappresentava la conclusione di un percorso. Il bilancio di una vita in politica. Del resto non è un mistero che il Presidente nel dare alle stampe il volume fosse certamente convinto di avere chiuso con l’attività politica. Già da qualche anno ragionava, anche con mio padre, su come convivere con il sentimento di una «missione conclusa», di come «trovare altri motivi d’interesse e guadagnare serenità. Governare se stessi», scriveva, «conseguire e mantenere un equilibrio dentro a sè, è impresa difficile in una certa fase della vita. Spero che avremo occasione di incontrarci, anche per discutere di queste nostre storie, per aiutarci a vicenda ». Poi la svolta, la Presidenza, e l’inizio di un’altra storia.
Il rapporto tra Gianni e Giorgio si è fermato alla soglia di quella svolta, quando la sfera dei sentimenti privati iniziava a prevalere sul sodalizio politico.
Anche se tra loro prima di tutto c’è sempre stata la politica: il lavoro quotidiano nel partito e
nelle istituzioni fino al progetto condiviso di trasformare il Pci in un grande partito riformista della
sinistra. Una prospettiva politica inseguita a lungo nell’arco di un’intera vita.
«Caro Gianni, penso che ci sia da accelerare la trasformazione effettiva e consapevole del Pci in un
serio e concreto partito riformatore, che non tema di essere etichettato come riformista o socialdemocratico, non abbia l’assillo di essere scavalcato a sinistra […] Penso che ci sia da portare avanti – per certi aspetti iniziare – il rinnovamento del nostro modo di essere e di operare, come partito e gruppo dirigente, smettendola di cavalcare o lasciar correre le posizioni e spinte più diverse come se fossero tutte conciliabili tra loro. Possono essere tutte legittime, ma alcune solo come posizioni di minoranza ben riconoscibili e delimitabili come tali in modo da non minare la credibilità della linea del partito e da non stravolgerne l’immagine, il messaggio […]».
Parole scritte sul finire degli anni ottanta, prima della caduta del muro di Berlino – e mai raccolte dal Pci –, che davano il senso della lucidità di un leader e della lungimiranza di un’area di pensiero che restò però sempre minoritaria, senza riuscire a prevalere.
Se la politica li ha tenuti uniti, anche nei momenti più amari, nelle sconfitte, l’amicizia più autentica tra mio padre e Giorgio Napolitano si è saldata nel tempo, con le serate trascorse a Roma, le passeggiate tra le calli veneziane con Clio e Fiorella, le vacanze all’Isola d’Elba, tanti anni fa.
Ma non è solo in nome di un’amicizia che la Fondazione ha costruito il suo rapporto con il Presidente. A ben vedere c’è un filo rosso che unisce l’impegno politico di una vita di Gianni Pellicani con l’attività della Fondazione, che con il suo lavoro cerca di tenere accesa la fiammella dell’impegno civile attraverso iniziative di cultura politica.
È un impegno che continua, del quale il Presidente ha voluto renderci merito, accompagnando la nostra attività nel corso di tutto il doppio mandato. In principio inaugurando la nostra sede, poi “regalandoci” due tra i più significativi discorsi di tutto il periodo trascorso al Quirinale.
I “discorsi veneziani”, che sono diventati un volume (“Giorgio Napolitano. I discorsi veneziani.”) affrontano i temi centrali che hanno caratterizzato lo spirito riformatore che ha contraddistinto tutta la storia politica di Napolitano: la centralità della Costituzione e dell’Europa.
Il primo, del 18 settembre 2008, a Palazzo Ducale in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione. Un momento tutt’altro che rituale, in cui il Presidente ha voluto porre con coraggio il tema della necessità di modernizzare la Carta, puntando al superamento del bicameralismo con «l’istituzione di una Camera delle Regioni o delle autonomie» e rilanciando con decisione «il federalismo fiscale».
Il secondo citatissimo discorso – Le nuove mappe della politica in Italia e in Europa –, del 6 settembre 2012, al teatro Toniolo di Mestre, nell’ambito dell’annuale Festival della Politica, organizzato dalla Fondazione Pellicani. Un intervento di altissimo profilo, in chiave nazionale ed europea, in cui Napolitano ha lanciato la sfida per «una controffensiva europeista», delineando con nettezza la prospettiva di un’Europa federale in cui «i partiti debbono impegnarsi in prima linea». Uno scenario di grande innovazione e suggestione ma che per essere realizzato necessita anzitutto che i partiti escano «dagli asfittici ambiti nazionali». In questo senso il Presidente ha riaffermato la centralità dei partiti nella vita democratica, senza però trascurare, con un’analisi tanto severa quanto obiettiva, la crisi in cui i partiti sono piombati, e la carenza dimostrata dalle leadership europee. Una «perdita d’autorità della politica», come ha sottolineato dal palco del teatro Toniolo, «e dei suoi attori principali, i partiti », i quali hanno pagato il prezzo «da un lato di un pesante impoverimento ideale, dall’altro di un infiacchimento della loro vita democratica, di chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolone verso forme di degenerazione morale». Se demonizzando i partiti non si risolvono i problemi che stiamo affrontando, questi devono essere rifondati e devono darsi una dimensione europea: il Presidente ha indicato alcuni punti precisi d’azione come «l’adozione, già in vista delle elezioni del Parlamento europeo nel 2014, di una “procedura elettorale uniforme” che consenta lo scambio di candidature e la presentazioni di capilista unici tra paese e paese da parte dei grandi partiti europei».
Un’analisi efficace e concreta costruita con parole forti, che rimangono attuali e sulle quali anche a distanza di mesi si continua a riflettere.

Probabilmente non è un caso che il Presidente Napolitano abbia scelto la Fondazione Pellicani per esprimere in modo così chiaro e fermo il suo pensiero politico. Mi piace pensare che abbia inteso
farlo in un luogo dove sentirsi a casa, circondato dal nostro affetto. Ma questo non sarebbe stato sufficiente se non avesse riconosciuto nella Fondazione una forma d’impegno civile che non è altro
che la prosecuzione di quel «continuare a spendersi». Affidandoci due “messaggi in bottiglia” di grandissima importanza rivolti agli italiani.

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